La rimozione della morte e i riti che rendono più umani

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Chi scrive ha avuto la possibilità di vivere il rapporto con la morte in un modo che molti (oltre una certa età…) ricordano. Una presenza che aveva i suoi tempi e le sue occasioni. Quelle più feriali consistevano nella visita al cimitero con i suoi riti (pulire la tomba, portare fiori freschi, accendere qualche lumino, una preghiera “per i nostri poveri morti”). C’erano poi i momenti in cui si faceva visita ad una famiglia che aveva perduto una persona cara.

Oltre alle condoglianze, ci si fermava alla recita del rosario, in presenza della salma, per l’ultimo saluto… e la Messa del primo novembre, al pomeriggio, al cimitero del paese, con la presenza di molta gente, credo almeno qualcuno per ogni famiglia, tutti uniti dalla comune esperienza del lutto, recente o remoto. Questi vari momenti e i riti che li caratterizzavano (non solo religiosi), potrebbero far sorridere, al pensiero di un mondo che non c’è più. In realtà mettevano in evidenza diversi elementi che superano l’aspetto culturale. Pur entro gli aspetti di sofferenza, si riusciva a parlare della morte come di una realtà appartenente alla vita di ogni persona. Dove era possibile, la salma veniva lasciata nella sua casa, in attesa dei funerali e nonostante la giovane età, anche noi bambini eravamo tenuti a partecipare. Questa ritualità metteva in luce la dimensione comunitaria, sociale di ogni persona. Ognuno di noi possiede legami con la sua famiglia, con altre persone (colleghi, amici, etc.). Ancora oggi, nonostante i tempi molto cambiati, le esequie sono anche dei “riti sociali” prima che religiosi: esprimono in qualche modo le relazioni tra il defunto e i suoi conoscenti, la sua famiglia. Partecipare o meno al funerale di una persona ha delle conseguenze molto concrete anche per il mondo dei vivi! La realtà della morte non era tanto oggetto di immaginazione, perché queste e altre occasioni ci aiutavano a percepirla come qualcosa di collegato alla vita di ognuno, integrato nell’esistenza quotidiana. Gli anni che sono passati ci hanno dato la capacità di sapere molto di più, anche cose non direttamente utili per la vita quotidiana: i bambini crescono e conoscono molte più cose che non una volta. Spesso manca però loro l’esperienza diretta delle realtà quotidiane: il poter toccare con le proprie mani, vedere con i propri occhi, scoprire il mondo in prima persona. Il capitolo “defunti” diventa uno di quelli più imbarazzanti per gli adulti, nella paura di raccontare, ma senza spaventare, cercando le parole che un bambino possa capire. Come nel caso di chi assiste i malati, il problema principale riguarda noi stessi e il nostro rapporto con la morte. Ciò che comunichiamo è il riflesso del nostro modo di stare o di fuggire. La risposta implicita alle esperienze che ci interpellano più da vicino. Anche a livello linguistico. Oggi nessuno “muore” più: al limite “viene meno”, “viene a mancare”, “si spegne”, “va in cielo”. Di solito in luoghi protetti, come gli ospedali o le case di riposo. Da sacerdote ho potuto scoprire la realtà dei funerali “a porte chiuse”, una situazione che si presenta ogni tanto: celebrazione con i parenti strettissimi e (a volte) il manifesto che annuncia le esequie già avvenute. La recente esperienza della pandemia ha lasciato alcune profonde ferite che riguardano appunto le persone morte in questo periodo. La percezione della morte in sé è oggetto di studi; ma la pandemia ha condotto molti a toccare con mano alcuni elementi che rendono umano il morire e che, per motivi di sicurezza sanitaria sono venuti meno. Molte persone sono morte lontano dai propri cari, assistite dal personale sanitario, quasi una famiglia adottiva presente nel momento dell’ultimo respiro. Le loro famiglie non hanno avuto la possibilità di accompagnare, tenere la mano, raccogliere le ultime parole. E neppure l’occasione di celebrare con un rito la loro partenza. Nel momento dell’emergenza, abbiamo riscoperto il valore dei gesti della pietà, dovuti ad una persona in quanto essere umano, cioè a prescindere da ogni ulteriore qualificazione. Abbiamo ritrovato, per un attimo, un genere di fraternità antico quanto la nostra specie, fondata sulla comune appartenenza alla terra, sulla nostra fragilità. La commemorazione dei defunti non è solo una questione religiosa, ma profondamente umana. Dare l’ultimo saluto è anche una forma di riconoscimento della persona e della sua dignità, del suo legame con chi rimane. Il momento che lo ha reso impossibile, è quello che ce ne ha fatta sperimentare l’importanza. I defunti, sono in ogni caso i “nostri” morti. Anche oggi, la celebrazione delle esequie è al tempo stesso occasione per salutare chi ci ha preceduti e per riunire una famiglia. L’antica preghiera del Rosario è quella che di solito accompagna il momento della veglia e del commiato. È la preghiera di chi è in cammino, che si può recitare in molti contesti. E le parole dell’Ave Maria legano insieme alcune pagine di vangelo, intrecciandole con l’esperienza della perdita e della separazione, ma al tempo stesso aiutano a riprendere il nostro cammino.

don Michele Valsesia

parroco di San Michele all’Ospedale