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«Noi in Bosnia, seguendo la rotta balcanica»

La rotta balcanica dei migranti, dopo che Orban ha blindato l’Ungheria con il filo spinato, scorre in Bosnia-Erzegovina, un paese reduce da una guerra recente con ferite ancora dolenti. 

Oggi sono stimati in almeno 5 mila i migranti presenti nei due centri di Velika Kladusa e di Bihac,  le due cittadine a pochi chilometri dalla frontiera con la Croazia. Si sta dunque avvicinando una grave crisi umanitaria se non verrà avviata con estrema urgenza, prima dell’imminente autunno e inverno, una soluzione abitativa ai migranti che risiedono nei campi dove vivono già oggi in condizioni disumane.

Qui di seguito pubblichiamo una testimonianza di quattro borgomaneresi in visita nei campi profughi di Bihac e Velika Kla
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A Velika Kladusa arriviamo giovedì mattina accompagnati da Diego e da Greta Mangiagalli, rappresentante dell’Ong Ipsia: il campo profughi si raggiunge seguendo un sentiero in terra battuta che porta in una radura dove, visti da lontano, sembrano siano ammassati grandi sacchi della spazzatura; in realtà si tratta di un disordinato ammasso di rifugi di fortuna, fogli di cellophane neri sostenuti da pali di legno; una Ong spagnola “No name kitchen” la scorsa settimana ha portato qui un carrello in cui ci si può fare una doccia e il cartello, in inglese francese ed arabo, appeso all’esterno, stabilisce i turni per gli uomini, le donne e i bambini. In tutto 4-500 persone da Afganistan, Siria, Iran, Iraq e chissà da dove altro.

“Next night I’ll try again” (questa sera ci provo ancora, ndr); così ci ha detto un ingegnere civile iracheno. La guerra di casa sua ha ucciso sua moglie e sua figlia e lui, ora, arrivato fin qui, vuole andare in Olanda, dove ha degli amici. Ha già provato ad attraversare la frontiera a piedi, tra i boschi: il confine con la Croazia è lì, a 2 chilometri, ma la polizia croata lo ha rispedito indietro. Un ragazzo che faceva il designer di moda ha provato sei volte, i poliziotti lo hanno picchiato, abbiamo visto i lividi, gli hanno distrutto a martellate il cellulare per impedirgli di comunicare, di leggere una mappa, di non sentirsi isolato. Anche lui ci riproverà. Il tentativo di superare il confine è chiamato “Game”.

Mentre un’infermiera volontaria di Medici senza frontiere medicava i piedi di un giovane iracheno arrivato fin qui camminando e che la stessa sera proverà anche lui a passare il confine, passa una donna con evidenti segni di percosse  sulle spalle e sulla schiena. 

In questo campo di Vekika Kladusa bisogna intervenire con urgenza, ci sono uomini, donne e bambini e l’inverno sta arrivando rigido come sempre: due metri di neve e la temperatura che scende a meno venti è la normalità.

Nel pomeriggio ci rechiamo a Bihac per incontrare Daniele Bombardi, responsabile delle attività in Bosnia-Erzegovina della Caritas italiana, il presidente e il segretario della Croce Rossa locale. Ci raccontano con profondo senso di responsabilità, con grande passione per il grande lavoro che stanno facendo e con grande preoccupazione per il futuro prossimo della persone che assistono, la situazione dei profughi a Bihac. Qui c’è una struttura fornita dalla municipalità, un grande edificio che sarebbe dovuto diventare la casa dello studente. In realtà si tratta di uno stabile mai terminato senza serramenti alle finestre, con il tetto danneggiato e vicino c’è un campo aperto dove i migranti vivono nelle tende. La Croce Rossa riesce a garantire a oltre 800 persone che qui vivono tre pasti al giorno per tutti; visitando le cucine abbiamo visto una volontaria che aveva accanto a sé un enorme quantità di cipolle che stava pelando per il pranzo del giorno dopo.

Anche qui il confine è vicino; abbiamo visto, verso sera, ragazzi che preparavano gli zaini: “Next night I’ll try again”, forse stavolta qualcuno ce la farà, per tentare di attraversare a piedi Croazia e Slovenia, fino a Trieste; sono circa 300 chilometri: noi ci siamo stancati nel percorrerli in automobile. Il presidente della Croce Rossa, con una sola gamba perché l’altra l’ha persa durante l’atroce invasione della Serbia, ci ha detto che hanno pochissimi mezzi e non sanno quanto riusciranno a tirare avanti.

L’aiuto che ci viene chiesto è innanzitutto di informare, di far sapere cosa sta succedendo a migliaia di uomini, donne e bambini che rischiano la vita per sperare di poter continuare a vivere. Ci chiedono un aiuto concreto in coperte, sacchi a pelo e scarpe invernali che potrete portare alla Casa Piccolo Bartolomeo, perché la preoccupazione maggiore è per l’imminente, rigidissimo inverno, e i disperati continuano ad arrivare.

Ci chiedono infine di ricordarci di essere uomini, credenti o non credenti, cristiani cattolici, ortodossi, ebrei o mussulmani, figli di uno stesso Dio, dunque fratelli. Don Primo Mazzolari scriveva: «Dio ci ha creati bisognosi gli uni degli altri e ci ha messo insieme per costruire la giustizia nella carità. Aiutiamoci tutti insieme a metterlo in pratica. Torneremo a Bihac il prossimo mese».

Redazione: