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Le donne ucraine e i giovani al fronte vittime da non dimenticare

Foto Siciliani-Gennari/SIR

Sono passati tre mesi dall’invasione dell’esercito russo in Ucraina. Morte, distruzione, violenze di ogni genere. Con il rischio di indignarsi all’inizio e poi di farci un po’ l’abitudine. Come succede con tante altre guerre più o meno dimenticate. Siamo interpellati nelle nostre coscienze come credenti, come uomini e come donne. E le donne – insieme ai giovani – come in tutte le guerre, pagano il conto più alto subendo stupri e violenze di ogni genere. Ricordiamo che il Premio Nobel per la Pace del 2018 è stato assegnato a Nadia Murad, giovane donna irachena, yazida (nel 2014 a 21 anni rapita e tenuta in ostaggio dall’ISIS) e al dott. Denis Mukwege, della Repubblica Democratica del Congo, che cura le donne vittime di violenze sessuali. Oltre ai dibattiti geo-politico-strategici, economici e quant’altro, siamo chiamati in coscienza a guardare alla follia della guerra e porre l’attenzione fondamentale alle vittime. Che non sono ‘effetti collaterali’.

«Vittime collaterali». Termine coniato quando la guerra la faceva la Nato e le bombe erano intelligenti e i morti non si vedevano. Come possiamo dimenticare l’Afghanistan? Non è passato neanche un anno dal ritiro delle truppe occidentali… E anche lì sono le donne a pagare il prezzo più alto. Questa guerra nel cuore dell’Europa, con possibili scenari tragici a livello nucleare, ci deve obbligare ad impegnarci per la pace, a riflettere e a guardare con occhi diversi. Penso a tutto il movimento contro la guerra che sta crescendo in Russia, con rischi enormi per chi si espone. Il movimento dei nastrini verdi, per intenderci. Penso agli obiettori di coscienza sia Russi sia Ucraini. A quella mamma che in Ucraina ha accolto e nascosto un soldato russo che ha disertato, come fosse suo figlio: rischiano entrambi la vita. A quel ragazzo, soldato russo di 20 anni, condannato all’ergastolo per l’uccisione di un civile in bicicletta in Ucraina. Credo che tutti ci siamo resi conto, davanti al volto di quel ragazzo, che ha l’età degli animatori dei nostri Grest, di che cosa sia davvero la guerra, che toglie a tutti la propria umanità, prima ancora della propria vita. I grandi, i potenti decidono la guerra. I giovani, i piccoli vengono usati come carne da macello. E’ stato così sempre. Anche nella prima guerra mondiale, che – ricordiamolo – è iniziata proprio il 24 maggio del 1915: un’inutile strage. «C’è bisogno di ripudiare la guerra, … dove i potenti decidono e i poveri muoiono… Ecco la bestialità della guerra, atto barbaro e sacrilego!» ci ricordava Francesco, all’Angelus del 27 marzo scorso. E dello sgomento e delle paure dei giovani di 100 anni fa spediti al fronte abbiamo letto sulle pagine di questo giornale la scorsa settimana, nella rubrica Voci della Storia di don Paolo Milani, che ha riportato stralci delle lettere di alcuni di loro all’allora parroco di Fara. Ma che mondo stiamo lasciando, oggi, ai nostri ragazzi, ai più giovani? Certo spesso ci lamentiamo di loro perché ‘ i giovani del giorno d’oggi…’ Ma dobbiamo essere sinceri, noi adulti, e riconoscere che le più grande tragedie, i più grandi disastri e tutte le guerre le abbiamo decise noi adulti. E allora penso ai ragazzi che stanno terminando la scuola tra pochi giorni, e che magari si impegneranno nell’estate in tante esperienze di servizio, di animazione, accanto ai bambini, ai poveri, agli anziani, ai migranti… Penso che da loro arrivino grandi segni di speranza e di pace. Oggi come ieri. Sarebbe bello riscoprire l’esempio e la testimonianza di tanti martiri, ad esempio San Massimiliano di Tebessa, giovane martire a 21 anni per obiezione di coscienza, della Chiesa di Cartagine, sotto l’Impero Romano, ucciso il 12 marzo 295. Penso ad amici che conoscevo e testimoni di pace del nostri giorni: Guido Puletti, Fabio Moreni e Sergio Lana (20 anni) di Brescia, uccisi il 29 maggio 1993 mentre portavano soccorsi umanitari durante la guerra nella ex Jugoslavia, a Gornij Vakuf. A Gabriele Moreno Locatelli, giovane italiano ucciso a Sarajevo sul ponte Vrbanja il 3 ottobre 1993. Penso anche a quel giovane, vivo, ricercatore italiano che lavora in Germania. La sua storia ci è stata raccontata, praticamente in diretta, da don Angelo Nigro in un incontro con numerosi studenti dell’Istituto Cobianchi di Intra, ai primi di marzo. Questo giovane ingegnere ricercatore, con un ottimo stipendio, dopo aver ricevuto un’offerta di lavoro con il triplo dello stipendio, è chiamato però a progettare anche sistemi d’arma. Non ha dubbi: si licenzia. Al primo posto c’è la sua coscienza. Non servono altre parole. Ci deve fare riflettere. Tutti.

di don Renato Sacco

Consigliere di Pax Christi e parroco di Cesara

 

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